Gli Open Digital Badge come risposta al moltiplicarsi dei corsi online

Articolo di Anna Filippucci
Con l’aumento esponenziale dell’offerta di corsi di formazione online, è importante fare una riflessione collettiva seria sul valore e la certificazione delle competenze acquisite, soprattutto se l’ente che offre il servizio di formazione non è un’Università, o altra realtà riconosciuta dal MIUR per erogare questo tipo di servizio.
Ma come fare? Esiste un modo per fare sì che i corsi online, così come tutta una serie di altre esperienze formative “non tradizionali” offline, come workshop estivi, summer school, esperienze di volontariato e weekend intensivi, possano avere un valore reale e certificato all’interno dei propri CV?
La risposta è sì, ed esiste già da alcuni anni: sono gli Open Digital Badge.
Gli Open Badge sono delle schede elettroniche sotto forma di immagine, condivisibili e contenenti una serie di metadati legati all’ente di formazione, al corso seguito e soprattutto alle conoscenze e capacità acquisite. Il loro compito è quello di attestare le competenze, attraverso una serie di evidenze (output) riconosciute da uno standard condiviso.
A partire dal 2021, Impactskills, ancora come Ong 2.0, ha deciso di farsi promotrice di questa nuova avventura digitale. Tutti coloro che hanno partecipato e parteciperanno ai nostri percorsi formativi realizzando con profitto esercitazioni e test hanno ricevuto o riceveranno al termine del corso, oltre all’attestato di frequenza, anche degli Open Badge corrispondenti alle competenze acquisite. La piattaforma per l’emissione dei badge è C-BOX, con la supervisione metodologica della SAA School of Management dell’Università di Torino.
Ma facciamo un passo indietro. Per vederci più chiaro, abbiamo fatto due chiacchiere con Marcello Bogetti, docente presso UniTo Labnet – SAA School of Management e promotore di un ampio progetto di diffusione degli Open Badge. La SAA è infatti uno degli attori che ha dato vita alla sopracitata piattaforma di emissione dei badge.
Marcello dal suo studio virtuale su Webex chiarisce subito le origini e le motivazioni della nascita dei Open Digital Badge (ODB). “I titoli di studio riconosciuti legalmente, tendenzialmente universitari, danno segnali contraddittori sul mercato del lavoro. Il fatto di aver preso 30 ad un esame non implica automaticamente che tu sappia fare concretamente delle cose”.
Certo, è strano sentirsi dire questo da un docente universitario. Eppure Bogetti non ha dubbi:
“È essenziale che i sistemi di istruzione tradizionali facciano dei passi in avanti e si pongano come obiettivo formativo l’acquisizione di competenze, piuttosto che esclusivamente un trasferimento di conoscenze.
Lezioni frontali, in cui il docente è un espositore di una serie di nozioni, non sono più accettabili, a maggior ragione in delle classi virtuali. Occorre che gli studenti si abituino a produrre degli output, piuttosto che ripetere concetti imparati studiando su un libro di testo”. Inoltre “c’è sovente un patrimonio invisibile di competenze, accumulato attraverso esperienze formative ‘non tradizionali’ che stenta a essere riconosciuto”.
Gli Open Digital Badge cercano dunque di rispondere a queste criticità, creando un nuovo sistema di credenzialismo e certificazioni che permettano il riconoscimento formale delle hard e soft skills altrimenti difficilmente dimostrabili attraverso un CV.
In un contesto sempre più digitalizzato, questi strumenti di certificazione hanno la caratteristica di essere trasportabili – si tratta infatti di icone facilmente allegabili al proprio CV, oppure alla propria firma digitale, e sempre di più anche caricabili su piattaforme online di ricerca lavoro – e riconoscibili dappertutto in quanto riferiti a standard condivisi internazionalmente.

“Gli Open Badges sono stati introdotti negli Stati Uniti 5 anni fa, in risposta a un mondo del lavoro sempre più fluido e veloce. A parità di titoli di studio, la differenza tra due candidati per lo stesso lavoro può essere data esclusivamente dalle competenze acquisite e in qualche modo certificate. Le prime piattaforme lanciate sono state promosse da Mozilla e McArthur Foundation e dal lavoro di questi giganti è stata possibile l’elaborazione di una serie di standard che oggi sono condivisi dalle piattaforme di emissione di ODB”. Ma la riflessione sull’innovazione del sistema educativo, in risposta all’aumento dei centri di formazione online o altre opportunità offline, non si è fermata agli States; “nel 2019 i ODB emessi erano poco più di 20 milioni, nel 2020, anche a causa dell’accelerazione di una serie di processi dovuta alla pandemia, i badges in circolazione sono più che raddoppiati”.
La piattaforma che la SAA ha contribuito a creare è nata 2 anni fa da un gruppo di lavoro informale composto dalla SAA stessa, in collaborazione con AssoLavoro, alcuni esperti di mercato del lavoro e una serie di aziende, con capofila IQC; è stata quest’ultima poi a occuparsi concretamente della creazione e della gestione della piattaforma C-BOX di emissione dei badges. “Si ispira agli standard dettati da Mozilla, ma utilizza anche la tecnologia Blockchain e ha il pregio di essere nata su impulso di una “community of interest” che ne ha definito le peculiarità e la logica sottostante”.
Ciò che vien da chiedersi è se questi certificati di competenze digitali non entrino in collisione con il sistema legalmente riconosciuto dell’Università per esempio. Marcello sostiene che “la crisi del sistema formativo attuale” sia ormai “un’evidenza”, e che questo sia “un processo irreversibile”. Tuttavia, “i badge attualmente non sono pensati per sostituire le pergamene di laurea, ma vanno piuttosto a integrare i titoli legalmente riconosciuti. Essi completano e aggiungono aree di competenze in cui non sono a oggi previste delle certificazioni; un esempio chiaro sono le esperienze di volontariato o il servizio civile. Nel CV oggi non valgono nulla, ma se certificate con i DOB esse acquisiscono un peso”.
La dimostrazione della non conflittualità tra, per esempio, Laurea e Open Badges è data dal fatto che diversi atenei stiano già sposando la logica dei DOB: da Nord a Sud, la Bicocca di Milano, le Università di Padova, Cagliari, Bari, Roma, ecc… dal 2016 in poi, hanno deciso di dotarsi di un sistema digitale di certificazione delle competenze.
L’ambizione degli Open Badge è grande. I centri di formazione che se ne avvarranno “diventeranno nodi di una rete sempre più ampia e universale, che permetterà una spendibilità inedita delle conoscenze”. Ovviamente perché questo avvenga “è necessaria una sorta di ‘evangelizzazione’ del mondo del lavoro e dei centri di formazione che permetta così un effetto moltiplicatore della logica che sottostà ai badge”, spiega Marcello. I centri di formazione dovranno imparare a progettare per competenze e non per contenuti e ore di esposizione; “ciò significa porsi la domanda ‘Cosa faccio fare agli studenti e cosa mi permette di capire che abbiano imparato?’. I badge non possono prescindere dalla presentazione di un’evidenza: alla competenza acquisita, va sempre allegato un output realizzato o la spiegazione dell’attività proposta per consolidare la competenza stessa”.
Infine, “in contesti lavorativi molto specifici, come quello della cooperazione internazionale, dotarsi di un sistema di Open Badge diffuso e condiviso, che permetta quindi il riconoscimento di una serie di competenze nella community degli addetti ai lavori, è un ottimo modo per creare un processo virtuoso di innovazione e diffusione del sapere pratico”, conclude Marcello.